lunedì 4 giugno 2012

attendendo la nube…

C'è una ragione per cui parlo di questo libro. La scriverò alla fine. Se hai pazienza prosegui nella lettura, sennò puoi andarci direttamente (a leggere la ragione, intendo.)

"La nube purpurea", di Martin Philippe Shiel.
Romanzo stravagante, allucinato, inquietante. Ma definire un libro solo con aggettivi aiuta ben poco. E allora proviamo a dire di più.
Innanzitutto parliamo della trama. Anzi, prima parliamo della voce narrante.

Il racconto procede in prima persona. Solo che nel giro di poche righe il narratore iniziale scompare, arretra, lasciando il posto a un'altra voce e questa a un'altra ancora (una delle tante similitudini con "Storia di Gordon Pym", di Edgard Allan Poe, autore i cui tratti lugubri e gotici sono marcatamente presenti in Shiel. Oltre che da Poe, comunque, la penna di Shiel sembra rifarsi allo stile dell'epoca, tra Robert Louis Stevenson e Oscar Wilde).

Ma torniamo al narratore. Ha così poca importanza il narratore iniziale che non gli viene dato nemmeno un nome. In poche pagine egli (ecco la trama) racconta di aver ricevuto per posta un pacco di manoscritti di un amico. Tra i manoscritti c'è una lettera in cui l'amico (cambio di voce) riferisce di aver trovato dei quaderni. In particolare, in uno di questi (il III, per la precisione) sono riportate le parole di una certa Miss Wilson, una chiromante facile a cadere in stato di trance. E in questo quaderno (altro cambio di voce) è riportata una delle visioni proprio di Miss Wilson…
Il racconto inizia. Prima di iniziare, però, la chiromante, chiarisce, a suo modo, il tempo in cui si svolge la storia, "in quel Futuro che, né più né meno del Passato, fondamentalmente esiste già nel Presente; per quanto noi, come accade col Passato, non lo vediamo." Sottile riflessione fatta giocando col Tempo.




Nel quaderno la chiromante racconta di una spedizione al Polo: chi la effettuerà riceverà una grossa ricompensa in denaro. Fin dalle prime pagine si può intuire cosa accadrà alla fine, ma senza avere idea della portata. Infatti, il protagonista del racconto – che parteciperà alla spedizione spinto dalla sua amata verso la quale prova sentimenti incerti, prima di partire viene ammonito da un vecchio. Questi gli fa presente che il Polo è come l’Albero della Conoscenza dell’Eden e chiunque lo profanerà dovrà attendersi l’ira di Dio, tra cieli irritati e tuoni e tempeste.

Finirà proprio così. Ma Adam Jeffson, protagonista del viaggio, non darà peso alle parole del vecchio. Partirà lo stesso. I suoi compagni di spedizione moriranno tutti. Rimasto solo al Polo, scorgerà una nube purpurea affacciarsi all’orizzonte. La nube letale è la conseguenza di devastanti eruzioni vulcaniche, ma il gelo del polo preserverà Adam rendendo la nube solo per lui innocua. Tornerà dalla spedizione, quindi, da solo.
Il suo ritorno segna un punto di svolta nell'atmosferaa della narrazione. Il romanzo, da plausibile fino ad allora, si trasforma in una delle più sfrenate e apocalittiche fantasie: capitali del mondo distrutte e incendiate, sommovimenti tellurici devastanti, maremoti, penisole scomparse tra cui l'Italia meridionale. E l'intero genere umano scomparso. Per effetto dei veleni della nube, ognuno è rimasto immortalato, come una statua, nell'ultimo gesto che stava compiendo (ma di questo ne riparleremo più in là: è la ragione di cui accennavo all'inizio).
Alla fine il sopravvissuto incontrerà solo una donna, divenendo entrambi i nuovi Adamo ed Eva, in un rifacimento della genesi, dove l'umanità, dopo la sua stessa scomparsa, riparte in una nuova origine. Davvero molto in sintesi.

Si potrebbe continuare a parlare di come Shiel si collochi nel decadentismo (se con questo termine si intese il disfacimento della civiltà, figuriamoci un libro in cui è tutta l'umanità a scomparire…) e della stranezza di un romanzo che andava in controtendenza con il positivismo derivante dalle scoperte scientifiche dell'epoca, contraddizione che caratterizzò vivacemente gli inizi del '900. Ma fare della critica letteraria esula dai contenuti di questo spazio e va oltre le mie competenze. Pertanto, mi fermo qui.

Quando ho scoperto che in altri libri Shiel aveva come… previsto il futuro (a fine secolo – 1800 – ha scritto di paurosi uomini delle S.S. – "Setta di Spagna" – che si riunivano in camere oscure sotto il Tamigi, di pericolo dell'invasione cinese, di raggi laser che risolvevano le sorti di una battaglia, la stessa nube purpurea fatta di quell'acido cianidrico che useranno i nazisti nelle camere a gas), be', quando l'ho scoperto, ripensando al racconto e alla quella storia della profezia dei Maya… Ma concludere con una tale sciocchezza non era mia intenzione, però.

Ed ecco, allora, quello che volevo dire fin dall'inizio.

Ha a che fare col primo post scritto in questo blog (l'ho riletto. A dirla tutta non era gran che: ecco perché ritorno sul tema).

Tra tutte le persone che il protagonista incontra, immortalate nell'ultimo gesto compiuto prima di rimanere avvelenate dalla nube, c'è la figura di un poeta. Vede la nube, il poeta, e sa che tra pochissimo (ore? minuti? quanto dura un "pochissimo" a ridosso della morte?) la sua vita finirà. Cosa fare, allora, nel tempo che gli rimane? Di tutto, di tutto ciò che può fare lui sceglie di prendere una penna, sedersi a uno scrittoio e scrivere poesie. Così lo troverà Jefferson, chino su uno scrittoio intento a scrivere cose che nessuno leggerà mai.

Una scena di una bellezza senza fine.

E Shiel la sottolinea con un passaggio che riporto: "… perché è chiaro adesso che, di quegli uomini detti poeti, i migliori almeno non scrivevano per far piacere all'oscura inferiore tribù di quelli che potevano leggerli, bensì per dare alla luce quell'ardore divino che bolliva nel loro petto; è chiaro che se tutti i lettori fossero morti, i poeti avrebbero continuato a scrivere, dal momento che scrivevano perché li leggesse Iddio."

Scoprire di appartenere a un'oscura tribù inferiore non è stato piacevole. E sapere che si scrive necessariamente per qualcuno, anche per Dio, e non per se stessi, non è proprio quello che avevo in mente. Ma la bellezza dell'immagine di un poeta che come ultimo gesto sceglie di scrivere una poesia mantiene una sua perfezione.

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