giovedì 7 giugno 2012

la battuta perfetta…

Un uomo, solo, seduto al divano, è illuminato dal cono di luce di uno schermo televisivo acceso.
È il disegno della copertina del libro "La battuta perfetta" (edito da minimum fax), romanzo di Carlo D'Amicis, un amico che incontro e sento sempre volentieri.

Quando lessi il titolo la prima volta, non conoscendone il contenuto e non dando alcun peso alla copertina, pensai che per battuta si intendesse il servizio nel tennis, il colpo di inizio del singolo gioco. Bastò leggere poche righe per capire il reale contenuto del romanzo (e, ahimè, prendere atto della mia tarda arguzia).
Battuta sta per barzelletta, invece, sebbene il libro di Carlo D'Amicis non sia fatto di barzellette. Ce ne sono, alcune, ma non lo è. Una la riporterò. Solo alla fine, però. Una "bonus track".

Passiamo al romanzo.
La storia si svolge in gran parte a Matera, dove si sta girando il "Cristo" di Pasolini. La città la si riconosce anche per il dialetto, presente con una certa pulizia e mai invadente. I sentimenti della gente sono genuini e spontanei, talvolta repressi, come nel caso della madre di Canio Spinato, il protagonista.

Il libro è strutturato in due parti, due lunghe lettere che Canio scrive prima al padre, Filippo, e poi al figlio. Ho dei dubbi, però. Perché forse non si tratta di lettere. O se si tratta forse nessuno mai le aprirà. Forse si tratta di un diario in cui il rivolgersi ad altri è l'atto necessario per scavare in se stessi. L’uso ricorrente delle parole 'padre' e 'figlio', poi, scandisce le pagine, sottolineando un'intimità che il lettore talvolta ha l'impressione di violare.

Ma cosa si dice in queste lettere?

Canio racconta la sua vita, che è la stessa della società italiana, dagli anni '50 fino ad oggi, in un viaggio che, scavando nelle pieghe degli accadimenti, si sofferma soprattutto sul ruolo giocato dalla televisione in tutti questi anni. Il padre Filippo lavora in Rai. Legge i classici e crede nel compito educativo della tv. Ma credere in qualcosa talvolta può portare a delusioni, come quelle da lui avvertite nel vedere una tv perdere col tempo pudore e innocenza, e da educatrice farsi idolatra del 'mercato'. E poi l'invasione dei 'barbari' di Publitalia. Ma il destino sarà ancora più beffardo. Sarà proprio suo figlio, Canio, a lavorare per Publitalia, consigliere del Presidente. Consigliere di barzellette. Un consigliere ingenuo, però, che vede il suo compito di far ridere gli altri come una missione.

Nella seconda parte, Canio, rivolgendosi al figlio Silvio (nome non casuale), ripercorre la sua vita attraverso salti temporali in cui tenta di assolvere se stesso: è una colpa desiderare la felicità degli altri? La sua ingenuità è tale da farsi una concezione moto personale di potere ("Il potere, figlio. La gente pensa che rende chiusi, egoisti, passivi. Invece, appena ce l'hai, senti subito la smania di usarlo, per regalare agli altri felicità"). Il bene, per Canio, si confonde con la felicità, e la felicità, a sua volta, con la risata. Rispolverando un passato fondato solo su questo, però, diradata la polvere non possono che venir fuori presunti eroi e falliti di ogni età.

Nel finale felicità e risata sono ricondotti a una speranza, attraverso un'immagine che probabilmente alcuni considereranno minore rispetto all'intera narrazione, ma che acquista un profondo significato se solo si ricorda che si ha tra le mani un diario, oltre che un racconto.

Lo stile è molto ricercato, con continue metafore che prendono vita da ogni cosa (è un aspetto di Carlo D'Amicis che apprezzo molto). Forse l’estrema ricercatezza dello stile è, allo stesso tempo, un pregio e un limite dell’opera, obbligando il lettore a rallentare il ritmo della lettura. Ma c’è chi, come me, trova questo un piacere.

Ah… dimenticavo: la barzelletta, la "bonus track": le promesse si mantengono, no?


Due amiche escono e vanno a cenare al ristorante. Evidentemente il cibo non è fresco, perché al ritorno vengono colpite da un attacco di dissenteria. Si fermano. L'unico posto un po' appartato è il cimitero. Scendono quindi a precipizio dalla macchina e liberano l'intestino tra le tombe. Subito dopo, però, nasce il problema di pulirsi. «Io uso le mutande», dice la prima, «e pazienza se torno a casa senza».
«Io le mutande non le porto», dice la seconda, «mi pulirò con questo mazzo di fiori freschi».
Il giorno dopo, i rispettivi mariti si incontrano con l'aria preoccupata. «Lo sai?», fa uno. «Mia moglie ieri sera è tornata a casa senza mutande».
«Beato te», risponde l'altro, «la mia aveva un biglietto infilato nel culo con su scritto: Gli amici ti ricorderanno sempre con affetto».

(A proposito: chiedo scusa a Charles Baudelaire per aver accostato irriverentemente l'immagine della sua tomba a una barzelletta.)

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