giovedì 22 novembre 2012

Riflettendo su "Venuto al mondo"…



Perché non mi sono emozionato nel vedere il film “Venuto al mondo”? Eppure il film sembrava proprio puntare a questo. E allora perché non è accaduto? Lo avrò seguito distrattamente, il film? O sono incapace di provare emozioni? Forse. Ma c’è qualcosa che non mi convince. Non in me stesso, nel film. (Un’avvertenza: più avanti sarà svelato il finale del film; pertanto chi non volesse leggerlo può interrompere qui la lettura.)

Non posso dire che sia un film fatto male o di cui sconsiglio la visione, questo no. Mi è piaciuta la fotografia, la recitazione di Penelope Cruz, (molto meno quella del figlio di Sergio Castellitto), e in fondo anche la trama andava bene. Ma qualcosa non mi ha convinto. Insomma, questa mia riflessione non è una stroncatura, ma solo un volermi porre una domanda: perché diavolo non mi sono emozionato?

Ora, questo a voi potrà fregarvene poco, in quanto potrebbe essere essenzialmente un mio problema. Eppure, riflettendoci, mettendo a fuoco meglio trama e sequenze, ho come l’impressione che nel film ci sia qualche… tranello, per così dire, qualcosa che riduce l’onestà del regista, che fa sembrare il film pensato più per l’effetto che deve avere sul pubblico che non per la reale volontà di porre interrogativi su situazioni e scelte di vita.

Il fatto è che io faccio già fatica a capire cosa è accaduto in Jugoslavia, nell’assedio a Sarajevo, semmai ci sia qualcosa da capire in una carneficina senza senso. In questo scenario apocalittico, poi, liquidato con una semplice battuta tipo, "non sa che cosa dice…", indirizzata al criminale accusato di genocidio, Radovan Karadzic, (un po' poco, forse, per "spiegare" questa guerra),  il regista vorrebbe che io m’interrogassi su quanto etica sia la scelta per una coppia di volere a tutti i costi un figlio, fino al punto da decidere di inseminare una donna a loro estranea. E se questo non bastasse, il finale, svelando che la donna ha dato alla luce una creatura non in seguito all’inseminazione prevista, ma a causa di una violenza subita da alcuni militari, vuole che io mi chieda con quali occhi debba vedere un essere umano che, ignaro di tutto, è nato da tale violenza.

Guerra, scelte etiche, violenza, una vita nata dalla violenza… Troppo, sembra esserci troppo. Non che la trama sia impossibile o poco credibile, ma tutti questi temi mi sono sembrati funzionali non alla trama ma all’effetto che avrebbero dovuto avere sullo spettatore. Effetto ben chiarito da ogni personaggio, del resto, poiché tutti, chi prima chi dopo, versano lacrime (gli attori, intendo).
Anche alcune scene e alcuni dialoghi sono stati costruiti non perché necessari alla trama, ma utili solo a giustificare una sequenza successiva.

Penso a Diego, il compagno di Gemma (Penelope Cruz) quando dice di fare il fotografo di pozzanghere. È una specificazione del suo lavoro che non ha senso (o se ce l’ha mi deve essere sfuggito), ma è servita per rendere più… emozionante la scena in cui Gemma, danzando, perde il figlio che porta in grembo, e il sangue che cola lungo le gambe termina proprio in una pozzanghera, mentre lui, Diego, la sta fotografando. Ecco la giustificazione: musica di sottofondo, lei che balla, sangue che cola, rallenty, finalmente una pozzanghera.
E penso poi alla sedia che Diego porta con sé, dicendo che era quella di quando era piccolo, sedia che ricompare solo un’altra volta, quando, non essendoci più Diego, l’inquadratura della sedia ormai vuota (piuttosto scontata e banale, con tanto di musica ad effetto) serve a… "intenerire i cuori".
Forse sono state queste scene e altre simili a farmi seguire il film con una certa diffidenza. Era come se mi sentissi osservato dal regista, e che lui tentasse di vedere non quanta attenzione prestassi alla trama, ma quanta emozione trasparisse sul mio volto.

Sarà che forse le situazioni straordinarie mi emozionano solo nella realtà. Nella finzione – nei film, appunto – l’occhio dovrebbe essere impressionato da quei dettagli ordinari che la trama fa diventare eccezionale, cose semplici, come uno sguardo, una mano stretta, una carezza, delle parole sussurrate, una persona che di spalle si allontana…
Magari, per queste cose, potrei anche emozionarmi.

lunedì 19 novembre 2012

La città di Aria…


È possibile che nella città di Aria tu ci sia già stato. Ed è possibile che sia tuttora la tua dimora. Ma, per l'esperienza dei miei viaggi, sento di doverti mettere in guardia.

Ricordo quando la vidi per la prima volta. Ricordo le sue case, ricoperte di polvere d'oro e d'argento, e la bellezza dell'architettura dei palazzi, con archi, portoni e frontoni finemente decorati, strade disseminate di petali di rosa, e alberi rigogliosi, con foglie dal verde insolito. La città era talmente bella che gli abitanti rilucevano della sua stessa bellezza. Ma poi si alzò il vento, leggero. Seppur debole, spazzò via ogni cosa. Portò via con sé la polvere d'oro e d'argento, denudò gli alberi delle loro foglie fatte della stessa carta con cui erano fatti i petali di rosa che ricoprivano le strade, ormai solo strisce di asfalto grigio. Il vento smascherò anche la finzione dei fregi su palazzi e case, lacerando sottili veli di carta su cui erano stati disegnati. Anche gli abitanti si trasformarono, tutti, i volti ora alterati da sguardi arcigni e avidi. La bruttura della città venuta alla luce la rese non più unica, simile a mille altre, e questo mi indusse ad allontanarmene.

Durante un altro viaggio, però, la incontrai di nuovo. All'inizio mi sembrò un'altra città, diversa da Aria, ma di pari bellezza. Non conoscevo, però, la caparbietà dei suoi abitanti che li portava a ricostruirla altrove, con la stessa cura, ricalcando la stessa effimera bellezza, stesso inganno. Capii che era proprio lei quando si alzò di nuovo il vento e la città ebbe la stessa metamorfosi di un tempo.

All'inizio, quando arrivi ad Aria, pensi di aver raggiunto l'ultima città, la più bella da visitare. Per questo quando vai via la delusione è così profonda che vorresti non incontrarla più per il resto del tuo viaggio.
Capisci, ora, perché devo metterti in guardia?
Non ho ancora terminato di viaggiare, ma ho fatto un'attenta selezione delle mappe che porto con me, e non uso più bussole, nel timore che anche un errato punto cardinale ne attiri ingannevolmente l'ago. Per orientarmi mi affido alle stelle, ora, agli spazi siderali.

Ultimamente, da lontano, mi è parso di rivedere Aria. Un viandante – era una donna – mi ha invitato a visitarla. Mi ha parlato della sua bellezza, del suo profumo, dei tramonti che assumono le stesse colorazioni della città, delle vie costellate di tutto ciò che puoi desiderare, di mura su cui, con polvere fatta dai fiori, e profumata, sono state scritte poesie.
Io l'ho fissata, la donna, e poi ho fissato lei, Aria, o quella che credevo fosse Aria. Poi ho guardato il calendario e l'orologio. Viaggiavo ormai da tempo. Volevo dirle che era tardi, forse. In quel momento si è alzato un vento leggero. Allora sono tornato a fissare la donna e, senza rammarico, per non rischiare un'altra delusione, le ho detto "Preferirei di no". E così mi sono allontanato da lì.

Devo essere onesto con me stesso, però, e con te che ascolti della città di Aria, e dirti tutto ciò che è accaduto dopo. Ero andato via ed esattamente dopo 108 passi il vento mi ha raggiunto, portando con sé un profumo che tuttora, mentre ti narro di questa città, non ho dimenticato. E devo essere onesto fino in fondo e dirti che mi sono fermato più volte, incerto, sognando, senza sapere cosa fare, senza sapere se tornare indietro, per non vivere il rimorso di non aver mai visitato la bellezza unica di quella città.
Ho ripreso il viaggio, e ogni tanto, tra un passo e un sogno, continuo a fermami, raggiunto sempre dallo stesso profumo.

* * *

[Dopo Abir, non era mia intenzione scrivere di altre città invisibili, poiché una certa insistenza poteva essere scambiata per un'insolente intenzione di emulare Italo Calvino.
È che ho scoperto il fascino di raccontare se stessi, chi e cosa ci circonda attraverso la narrazione di città. Ciò che lega Abir ad Aria è il tema della Bellezza. 
Il dipinto in apertura è di Salvador Dalì, "Metamorfosi di Narciso", (1936)]

domenica 28 ottobre 2012

Ha senso oggi scegliere il liceo classico?

Di sabato, verso fine mattina, mi capita di rimanere qualche minuto in auto a osservare ragazzi e ragazze che escono da scuola. Non lo faccio per divertimento o altro, è bene chiarirlo subito: la ragione ha a che fare col dovere di padre.

Comunque sia, li osservo. Zaini pesanti sulle spalle, sorrisi, continui sguardi intorno… Escono da un istituto, un liceo classico, più precisamente. Allora il mio sguardo si sposta da loro all'istituto, e non posso non pormi una domanda: cosa ha spinto questi ragazzi a scegliere il liceo classico?

Ciò che ho detto a mia figlia su quale fosse il mio pensiero a riguardo spero non abbia influenzato la sua scelta. Ma ho continuato a pensarci, raccogliendo qua e là immagini, parole, riflessioni che potessero puntellare più chiaramente la questione.
A meno che non si abbia in mente fin dall'inizio la professione che si vuol fare da grandi, scegliere il classico per il puro piacere di studiare letteratura, filosofia, greco, latino oggi sembra una scelta da pazzi. Ancor più se si continua all'Università. Perché farlo, allora?

Assistetti all' "open day" di un istituto classico. La cosa che mi colpì fu che, più che parlare delle materie cardine per quell'indirizzo, si sforzavano di gareggiare con gli altri istituti sul loro territorio, parlando cioè di scienze ("vedete, questo è il nostro laboratorio di fisica, così ben attrezzato…"), di matematica ("sapete, un alunno di questo istituto è stato preso a Ingegneria…"), inglese ("si fanno gite all'estero, per imparare meglio la lingua, per scambi culturali…")
Per carità, andava tutto benissimo, voglio dire, era sensato e giusto parlare anche di quelle materie, ma… e il greco? il latino? la filosofia, la letteratura? che fine avevano fatto quelle materie che sono il reale spazio che i potenziali alunni avrebbero dovuto abitare? Ebbi la sensazione che non se ne parlasse perché, essendo la necessità quella di mettere a confronto il Classico con altri licei o istituti, allora la partita si sceglieva di giocarla sul loro terreno.
Mi era una partita persa in partenza. E forse il calo delle iscrizioni ai licei classici lo dimostra.

A questo proposito c'è un interessante articolo, un'intervista a Giuseppe Zanetto, professore di Letteratura Greca alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Ve lo sottopongo e, anche se non lo leggerete, riporterò qualche suo pensiero.

Condivido molto di quell'articolo, comprese le perplessità e le speranze del prof. Zanetto. Ma… è come se mancasse qualcosa a definire meglio il cuore del problema.
Cuore… Sì, mi viene in mente un altro articolo, su "D" di Repubblica, in cui si invitava i professori a parlare al cuore dei ragazzi. Mi chiedo, allora: si parla al cuore anche quando li si deve convincere della scelta della scuola?

Il professore dice che bisognerebbe "rieducare i ragazzi a frequentare luoghi come teatri o musei, per aiutarli a conoscere la civiltà e le sue opere…". Giusto, ma prima o poi si dovrà pure spiegare loro l'importanza e l'utilità di questa conoscenza.
E infatti è ciò che fa, a grandi linee, il prof. Zanetto, facendo osservare che paesi come "gli Stati Uniti o l’Inghilterra sentono il bisogno di studiare latino, greco e materie umanistiche mai come prima d’ora." Giusto anche questo, ma qualcuno dovrà pur dire da cosa scaturisce e a cosa porta questo bisogno di studiare le materie umanistiche.
Nell'articolo il professore ricorda la frase recitata spesso dai ragazzi: “Il latino e il greco non servono a niente, sono lingue morte”, e aggiunge che, al contrario, dietro quelle materie ci sono "gli affascinanti insegnamenti degli antichi". Nulla da obiettare, ma questo fascino cos'è? Dov'è? Bisognerebbe studiare quelle materie solo per il loro fascino?
Il prof. Zanetto, in proposito, sottolinea che "L’antico non è ancora passato…", ma nonostante tutto "l’uomo moderno non si riconosce più nel pensiero, nel discorso letterario e di conseguenza non riesce nemmeno a cogliere il richiamo alla vita che questo esercita", e che chi legge di cultura greca e latina è risvegliato a "una letteratura che promuove il senso della realtà e promuove quella problematicità della vita umana." "Pertanto", termina il prof., "sostengo l'importanza degli antichi per il recupero di noi stessi. Il liceo classico, che ora sta pagando il fardello della crisi, è il vero luogo da cui ripartire."

Fine dell'intervista. Applausi. Ma sinceri, anche da parte mia. Non solo per l'enfasi nella conclusione, ma anche per le verità dette.

Solo che… cambio pagina e quelle parole progressivamente svaniscono. E questo accade perché hanno tentato di convincermi agendo sulla mia ragione e non sul cuore. Ma la ragione è facile preda di mille altri e più astuti sostenitori di opposte teorie, che vedono ad esempio la scienza come unica medicina per il futuro.

Penso a qualcosa che possa parlare al cuore, allora.
Perché scegliere materie umanistiche? Perché lo fanno all'estero, negli Stati Uniti e non qui?

Non ho in mente una risposta, ma un discorso. Anzi due.


Il 27 agosto del 1964 Robert Kennedy alla convention democratica ad Atlantic City tenne un discorso in cui commemorò il fratello John, ucciso il 22 novembre dell'anno precedente. Un discorso che strappò ventidue minuti di applausi e chissà quante lacrime. Un discorso che emozionò lo stesso Robert Kennedy, che al termine si appartò in un sottoscala da solo, con gli occhi lucidi. In quel discorso Robert Kennedy citò il poeta Robert Frost, ma soprattutto si sentì coinvolto emotivamente quando citò un brano di Shakespeare, tratto da Romeo e Giulietta, in cui Giulietta, presagendo la morte di Romeo sogna che il ricordo del suo amato possa durare in eterno, con la stessa bellezza di un cielo tempestato di stelle.
Cinque anni dopo, il 4 aprile del 1968, sempre Robert Kennedy durante la sua campagna elettorale a Presidente degli Stati Uniti viene informato in auto, poco prima di tenere un comizio nell'Indiana, dell'assassinio di Martin Luther King. Nel discorso che terrà di lì a pochi minuti, il più profondo messaggio che sente di trasmettere, a memoria, alle migliaia di persone che gli sono intorno è tratto dall' "Agamennone", di Eschilo, ricordando a tutti che si arriva alla saggezza attraverso la sofferenza. Il brano faceva parte di un saggio, "The Greek way" sulla tradizione classica greca, che Kennedy amava leggere e rileggere e che tempo prima lo convinse a candidarsi.

Eschilo

E allora, se la persona che con ogni probabilità sarebbe diventata la più potente della Terra si affida alla letteratura e a citazioni del mondo classico, greco per trovare e trasmettere forza, vuol dire che quelle parole hanno in sé un'inconfutabile potenzialità e conservano una granitica attualità. E venivano dette da un candidato alla Presidenza che aveva fatto un discorso chiaro sul PIL, sul fatto che una nazione non può essere valutata per quanto produce ma per come vivono i propri abitanti, per lo sviluppo della sua istruzione, perché il PIL "non comprende la bellezza della nostra poesia". A pensarci… È terribile… È terribile come la mia generazione abbia disatteso quelle speranze. Oggi sembrano incredibilmente attuali queste parole, in un mondo in cui regna il "mercato" (qualsiasi significato questa parola abbia) e dove il "consumo" ha tolto spazio e vita all'essere umano. È evidente che qualcosa è venuta meno, quel "senso della realtà e della problematicità umana".

Tutti quei discorsi di Robert Kennedy furono tenuti in anni in cui il mondo era sull'orlo della terza guerra mondiale, con la crisi cubana per l'invasione della Baia dei Porci, la guerra del Vietnam in corso, i diritti dei neri ottenuti a un prezzo raccapricciante di vite umane. Mai l'umanità era stata più a rischio, mai aveva vissuto anni più pericolosi.
Bene, in quegli anni, col mondo sul baratro del disastro, cosa fa un candidato alla Presidenza della nazione più potente della Terra? Si affida alla poesia, a Shakespeare, ad Eschilo. Se lo hanno poi ammazzato, Robert Kennedy, il 5 giugno del 1968, lo hanno fatto per le sue idee, per la forza del suo pensiero, un pensiero che poggiava tenacemente su una visione umanistica della società. Erano idee che non piacevano, erano pericolose, troppo progressiste, troppo vicine all'Uomo. Non era un visionario, se lo hanno ammazzato, ma un uomo dalle idee potenti, rivoluzionarie, idee che rappresentavano una speranza per milioni di persone, e disegnavano una nuova società. Ed erano idee nate da una cultura classica.

Ora, scegliere un liceo classico invece che un altro indirizzo, naturalmente, non è che metta a rischio la vita di qualcuno, e non deve far pensare a insegnamenti che carichino troppo di responsabilità. Ma è utile far capire che le conoscenze a cui un ragazzo potrà accedere gli offriranno quegli strumenti indispensabili per disegnare una diversa società, se solo si avesse la forza di farlo.

Immagino, allora, un "open day" diverso, in cui si parli al cuore, facendo leva proprio sulle materie che caratterizzano un indirizzo classico, con questi argomenti. Anche con questi. Se un ragazzo o una ragazza nel sentire queste parole non avvertisse anche un solo battito in più del proprio cuore, o non provasse quella strana sensazione di chi si trova, a sua insaputa, nel luogo da cui è necessario "ripartire", allora è bene che non scelga questo indirizzo. Penso, però, che i ragazzi abbiano più voglia di provare emozioni e di tentare cambiamenti di quanto crediamo. Se solo gli venisse spiegato come e dove possono farlo.

giovedì 18 ottobre 2012

Regole in poesia? Sì, no…


Da poche settimane è ripreso il palinsesto invernale delle trasmissioni e finalmente posso tornare alle mie (sane?) abitudini serali.
Accendo il televisore e prendo un libro tra le mani. Non è necessario guardare lo schermo (sarebbe abbastanza stupido da parte mia fissare per due o tre ore una superficie nera: sono soglie di pazzia non ancora raggiunte). Non è necessario perché il mio apparecchio lo uso come un radio-televisore, ormai. E il palinsesto a cui mi riferisco è quello radiofonico.
A parte qualche uscita serale in compagnia, o qualche film (che, accuratamente selezionato, vedo non appena posso), ci sono due trasmissioni che fanno da sottofondo alle mie serate. Una è su Radio 2. Si tratta di "Rai Tunes". L’invidiabile voce del conduttore, Alessio Bertallot, ti accompagna tra musiche, interviste, letture di brani letterari (Furore, Moby Dick, ecc.) con una discrezione notturna da consentirti di leggere qualsiasi cosa, nel frattempo.

A mezzanotte si cambia stazione. Su Radio Capital per un’ora mandano in onda “Parole e Note” (la ragione per cui scrivo questo post). A dire il vero questo programma non segue una programmazione precisa, ma questo non importa.
Musiche, poesie, brevi biografie di poeti, romanzieri… Tutto, però, ruota intorno alla poesia. Puntualmente, sia nel corso di ogni trasmissione che in apertura, vengono riproposti alcuni dialoghi tra John Keats e la sua Fanny, tratti dal film “Bright Star” (http://www.mymovies.it/film/2009/brightstar/)  (vedetelo, se non lo avete ancora visto).
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Keats: “Se la poesia non nasce naturalmente come le foglie di un albero allora è meglio che non nasca affatto.”

Oppure

Fanny: “Ancora non so come comprendere una poesia…
Keats: “Una poesia deve essere compresa attraverso i sensi: lo scopo di tuffarsi in un lago non è di nuotare immediatamente a riva, ma restare nel lago, assaporare la sensazione dell'acqua. Non si comprende il lago, è un'esperienza al di là del pensiero. La poesia lenisce l'animo e lo incita ad accettare il mistero.”
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Fin qui tutto ok, e, forse, tutti d’accordo. Poi, però, mi tornano in mente le parole di Valerio Magrelli alla trasmissione di Fazio e Saviano, “Quello che (non) ho”. (http://youtu.be/SThH_0B1bcI?t=16s)
(ascoltare una trasmissione radiofonica e per un attimo ricordarsi con una certa precisione del passaggio di una trasmissione televisiva di mesi prima tratteggia uno stato mentale di cui, forse, dovrei preoccuparmi. Ma vi giuro che è andata proprio così. E, stupidamente, i ricordi diventano epifanici momenti.)
Magrelli, allora.
Magrelli diceva che prima di iniziare a parlare o a scrivere o a leggere di poesia bisogna studiarla, bisogna andarsi a comprare un manuale in cui siano esposte le regole, oppure bisognerebbe iscriversi a un corso universitario specifico. (Quanto è irritante sentire certe…)

Sembra esserci una profonda contraddizione tra la riflessione di Keats e l’invito di Magrelli. Qualcosa non quadra.
Immagino che tutti quelli che si dedicano alla poesia nel loro privato – ognuno col suo libricino, coi propri versi –, trovino le parole di Keats come un… Vangelo, e vedano quelle di Magrelli come la spocchia di un cattedratico arroccato nella propria autorevolezza, in un mondo dove si vogliono tenere alzate barricate, a difendere fino allo stremo un sapere e un’arte riservata a pochi eletti.

Certo è affascinante, romantico immaginare un poeta che, preso da folgorante ispirazione, compone versi senza dar conto a nulla, se non alla sua estasi poetica.
Non credo che le cose stiano esattamente così. Non è la poesia a nascere naturalmente, ma l’ispirazione poetica, il pensiero che si vuole fissare nella forma di poesia. Poi la forma richiede attenzione, a tutto: alla scelta delle parole, alla loro disposizione, al loro suono. E anche alle regole.
Le figure retoriche nelle poesie non sono strumenti di scrittura – o regole, appunto –, ma metodologie estetiche che rafforzano emozioni, pensieri, contesti, tensione, bellezza. La loro conoscenza non è necessaria per emozionarsi nel leggere una poesia, ma probabilmente diventa indispensabile quando si vuole trasformare un pensiero in versi.
Non esiste uno scrittore, credo, che, illuminato da luce divina, o posseduto da entità sconosciute, componga versi di getto, senza alcun intervento successivo. Il tempo dedicato a un solo verso di una poesia presumo che sia di gran lunga maggiore a quello necessario per la stesura di un’intera pagina di un romanzo. C’è una sola, precisa parola per definire un esatto pensiero, e c’è un solo modo per metterle tutte insieme, le parole. È un lavoro lungo, e presuppone – oltre che sensibilità, naturalmente – anche meditazione, attenta cura nel modellare il verso in ogni sua parte.

(foto di Vittorio Longoni)
Il consiglio di Magrelli, quindi, è prezioso. Molto. Ha il difetto di essere stato espresso in maniera poco convincente. Avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle parole anche in quel caso (Magrelli è un poeta, del resto…), scegliere un modo diverso per suggerire l’importanza delle regole.
Che poi, alla fine, conoscerle, le regole, diventa anche un’esperienza interessante, piacevole. Se tuffandoti in un lago (mi perdoni Keats se mi rifaccio…) dicevo, se tuffandoti in un lago qualcuno ti dicesse come sia possibile rimanere più facilmente a galla, allora godresti della bellezza del lago con maggiore piacere.

Questa storia delle regole, dunque, sembra essere vera, per la poesia. Mi chiedo come mai se ne parli poco per la narrativa. Sembra che in quest'ultimo ambito sia concesso tutto, o che attenersi alle regole voglia dire semplicemente adeguarsi alle modalità dominanti delle tecniche di scrittura (attualmente, una, ad esempio, è quella postmoderna). Magari bisognerebbe che qualcuno insegnasse altre regole, che aiutino a trasferire sul foglio emozioni invece che inchiostro, o a scrivere per il lettore piuttosto che per il mercato. In fin dei conti, si tratta di regole semplici. Tutto qui.

In ogni caso, se vi va – e soprattutto con chi vi va –, provate a trascorrere una serata così: radio accesa, un divano, un libro, qualcuno accanto. Il trascorrere del tempo viene scandito da atmosfere inaspettate.

domenica 26 agosto 2012

Una città invisibile...



Per raggiungere Abir, città della cui bellezza si narra o si legge, bisogna rispettare due condizioni. Vanno rispettate entrambe, l’una non esclude l’altra, e riguardano lo spazio e il tempo.

Cosicché, sottostando alla prima condizione, Abir la puoi raggiungere solo dal mare, da qualsiasi mare. Se tentassi di farlo via terra, con qualsiasi mezzo tu viaggiassi, o anche a piedi, non la raggiungeresti mai. A nulla servirebbero le indicazioni lungo le strade, o agli incroci; e nessuna mappa, per quanto dettagliata, ti sarebbe d'aiuto. Continuando a girare a vuoto ti convinceresti che la città non esiste o che sia impossibile da raggiungere, costruita in un misterioso angolo al termine del più intricato labirinto di strade.

Per la seconda condizione non c’è possibilità di scelta: puoi arrivare ad Abir solo dopo l’imbrunire. Non dipende da te quando raggiungerla, perché se partissi da un qualsiasi punto ad una qualsiasi ora, sarà solo alle prime luci della sera che potrai "vederla".

Solo così, quindi, arriverà un giorno che dal mare – solo dal mare –, e di sera – solo di sera –, avvisterai la città di Abir. Da lontano riconoscerai le luci del lungomare e quelle della città intera che si riflettono sull’acqua, distendendosi, tremolando, fino a sfiorare la tua imbarcazione. Ma continuando a remare sulla scia di quelle luci non avresti alcuna speranza di raggiungerla. E così procederà il tuo interminabile viaggio, per tutta la notte, al termine della quale, riaffacciandosi la luce del giorno, si dissolveranno invece quelle della città, e la città stessa.

Penseresti a un inganno, o a un miraggio notturno, non sapendo, però, che navigando su quelle scie di luci ad Abir eri già arrivato. Se solo lo avessi saputo, e creduto, e ti fossi fermato anche per un solo istante su quelle scie, allora avresti visto palazzi strade e piazze venir fuori dal nulla.

Ma questo il viaggiatore non può saperlo all’inizio del suo viaggio. E per lui non ci sarà una seconda possibilità di vedere Abir.

* * *

[Una città invisibile che ho immaginato, un omaggio – irriguardoso e pretenzioso, forse – a Italo Calvino, o alla mia città, o a un'idea di bellezza che coltivo ormai da tempo. La foto l'ho scattata nel luglio del 2012. Il lungomare è quello di Bari.]

giovedì 19 luglio 2012

DFW e la "Rapidità" di Calvino…

Henri Cartier-Bresson
Quando ero piccolo e il televisore era in bianco e nero (ahimé, immaginate l’età…) mia madre a volte diceva “L’ha detto il televisore” per spiegare a mio padre il perché stava facendo una determinata cosa. Mio padre non la prendeva bene e rispondeva nervosamente, facendo notare l'insensatezza di quella frase. Non perché dubitasse delle verità del televisore – anche lui ne era soggiogato –, ma solo perché vedeva la sua autorità di capofamiglia soppiantata da qualcun altro (o qualcos’altro). Cosa c’entra questo? Un po’ di pazienza.

Rapidità, allora. Quella di Italo Calvino. O perlomeno una mia idea della sua Rapidità.

Parlare di Rapidità a proposito della scrittura di David Foster Wallace può sembrare un azzardo. Chi avesse tra le mani le 1200 pagine di Infinite Jest e intendesse per Rapidità una certa brevità del racconto e velocità nella narrazione, probabilmente penserebbe che si tratta di un'evidente forzatura del ragionamento.
Costui, però, molto più probabilmente non ha letto con attenzione Italo Calvino.
Henri Cartier-Bresson • Berlino 1962

A proposito: gli spunti di questi post nascono dalla lettura del saggio di Carlotta Susca, "David Foster Wallace nella Casa Stregata". Devo dire, a questo punto – visto che è il secondo post in cui ne parlo –, che il saggio non è basato unicamente sul parallelismo Wallace/Calvino (c'è molto altro, le pagine sulle proposte di Calvino sono appena 14 su 200); ma rimango sempre affascinato ogni qual volta si chiama in causa lo scrittore italiano.

Prima di scrivere questo post ho fatto una ricerca in rete (ne faccio poche, in genere si tratta solo di soddisfare curiosità) digitando “rapidità calvino”. I primi link mi rimandavano a blog (è inutile riportare quali, potete fare da voi la stessa ricerca) in cui il curatore, dopo aver riportato le proposte di Calvino, aggiungeva che lo scrittore era stato premonitore, che non aveva fatto altro che individuare le caratteristiche che in futuro avrebbe avuto il web. Ho sorriso. Non per quanto avevo letto. Ho sorriso pensando alla rete. E a quanti limiti abbia, nonostante tutto.

Ho sorriso anche quando ho letto le osservazioni di Carlotta Susca nel suo saggio, quando scrive che “la concisione non è esclusiva dei testi brevi ed è piuttosto la caratteristica di una scrittura in cui tutto sia funzionale e pertinente”. Ho sorriso, compiaciuto questa volta, perché in poche parole non solo l’autrice ha puntualizzato il pensiero di Calvino ma ha anche “giustificato” il perché si possa accostare la Rapidità a un romanzo di 1200 pagine. Probabilmente il riferimento di Carlotta Susca sulla rapidità in DFW poteva anche finire qui; ma l’autrice ha voluto ricordare che Wallace è capace anche di inappuntabili racconti brevi, riportando un racconto da “Brevi interviste con uomini schifosi”.
Henri Cartier-Bresson • Bambino che porta il quadro

Fin qui tutto ok.

Ora,… innanzitutto dico che faccio fatica a parlare solo di un concetto, quello di Rapidità, tenendolo avulso dagli altri, in quanto, come ho già scritto, credo, c’è molta commistione tra le cinque proposte di Calvino. Però, il gioco è questo. Una per volta.

Carlotta Susca aggiunge che “la precisione grammaticale di Wallace contribuisce a ottenere questo risultato” (quello di Rapididità). Credo, piuttosto, che questo genere di precisione di Wallace sia riconducibile più con l’Esattezza – di cui, forse, scriverò un giorno – che con la Rapidità.

Invece intravedo ulteriori riflessioni da fare in proposito.

L’idea di Calvino di Rapidità è tanto lontano da un’immediatezza pratica della scrittura da fargli specificare che essa si rafforza con la iterazione e la digressione. Mi piacerebbe parlarne più in generale, ma devo attenermi a DFW (per non sviare troppo dal post). L’iterazione a cui si riferisce Calvino è nel lessico, nella costruzione stessa di una frase o di una situazione (Calvino parla proprio di infantile piacere delle iterazioni). Non è facile ritrovare in Wallace la iterazione a cui pensava Calvino. Magari un'iterazione può esserci, ma non evidente, più sofisticata, dove le storie vengono "spezzettate" e riproposte, intrecciate l'una a l'altra, rinnovando nel lettore l'interesse per il racconto.

Sulle digressioni, invece, c'è una definizione particolarmente adatta alla scrittura di DFW, quasi Calvino l’avesse scritta appositamente per lui: “la rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte.”

Quindi, se addirittura una digressione viene considerata come esempio di Rapidità, dove siamo finiti? A cosa ricondurre la Rapidità? Penso alla precisione, ma non quella grammaticale. È la precisione della pagina, del periodo, della frase, della parola, tutte cose che solo dopo attenta e ponderata analisi risultano essere insostituibili e perfettamente aderenti a un esatto pensiero. È questo il lavoro da fare. È un qualcosa che ha a che fare con le tecniche pure di scrittura. Forse è proprio una lezione di scrittura. E Calvino detta il modo in cui una narrazione deve rispettare certe regole, che, nel caso della Rapidità, è quella di puntare all'essenziale, compatibilmente con ciò che si vuol dire; che poi la brevità si tamuti in una parola, un rigo, una frase, una pagina o un'intera digressione questo non ha alcuna importanza.
Henri Cartier-Bresson • Messico 1964

Faccio un esempio.
Penso a “Piccoli animali senza espressione”. Un racconto di DFW.
In uno studio televisivo si produce uno spettacolo a quiz. C’è una concorrente, che vince da tempo. Tutti gli addetti si interrogano su come sfruttare al meglio lo show. Lei vive un rapporto con la regista del programma.
Non è sulla trama che voglio soffermarmi, ma sull’uso di una parola. Esattamente una sola parola. È uno dei motivi per cui ho particolarmente apprezzato questo racconto.
In un paio di situazioni alcuni addetti al programma (non hanno importanza i loro nomi) si ritrovano in una stanza con un televisore acceso. I dialoghi sono intervallati da brevissime descrizioni di gesti. Alle parole di ognuno segue un “dice Dee, facendo tintinnare…” oppure “dice Muffy…
Wallace a ogni frase proveniente dal televisore, aggiunge “dice la televisione” o addirittura, se si tratta di una domanda, “chiede il televisore”. Ora, per uno attento alle parole come DFW, scrivere “dice il televisore” (come faceva mia madre, ricordate?) è quanto di più sbagliato ci sia, perché un televisore non “dice”, e non “chiede”. Ma può uno scrittore che scrive “Nell’impallidire, la sabbia si assesta e sibila” (frase che la si può riportare come una poesia a sé), oppure “Lunghi periodi di tempo adesso iniziano a sembrarmi come quegli intimi, angosciosi intervalli fra il momento in cui qualcosa cade e quello in cui si schianta a terra”? Può, uno scrittore così, essersi sbrigato con un “dice” per descrivere la voce proveniente dal televisore? Non può. (Le frasi sono tratte da altri racconti di Wallace che non siano Infinite Jest; l’analisi di questo libro è particolarmente efficace nel saggio di Carlotta Susca).

Dicevo, la scelta di quel “dice” deve essere durata forse più della stesura dell’intera pagina. Quel verbo esprime la sintesi esatta di un pensiero del tipo nella stessa stanza, dal televisore acceso arrivava una voce che, nel silenzio, la si poteva confondere come la presenza di qualcun altro, un “essere” presente tanto quanto un umano; oppure erano le parole degli umani a confondersi con quelle più indifferenti della televisione. (non vorrei aver rovinato alcune citazioni di Wallace con queste mie parole, ma ho scritto solo ciò che “ho letto” in quel “dice”). Questa assimilazione della televisione all’essere umano – o il contrario – trova una sua esemplare sintesi, perfettamente in linea col ritmo del romanzo, con quel “dice la televisione” (perché Calvino, a proposito di Rapidità, scrive che “i difetti del narratore maldestro sono soprattutto offese al ritmo”). E il ritmo di quel racconto non richiedeva di più.
Henri Cartier-Bresson • Il muro di Berlino

Comunque, vi ho sottoposto solo alcune mie impressioni avute durante la lettura, e suscettibili pertanto di essere soggette a critiche, o ampliate o riviste alla luce di ciò che, vuoi per tempo, vuoi per mancanza di acume, ho tralasciato. In ogni caso avrei voluto fare anche esempi in cui un'intera pagina è la sintesi di una sola parola (sembra un po' borgesiano come concetto ma credo che il nocciola del tema sia questo).

A proposito sempre di Rapidità, va detto che c’è un passaggio nelle “Lezioni americane” di Calvino che mi sembra meriti particolare attenzione, a proposito di Wallace. Scrive Calvino, “In un’epoca i cui altri media e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano di appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.
Questo passaggio mi fa pensare che sia in Calvino che in Wallace ci sia la stessa forma di resistenza, e nello stesso tempo di attenzione, ai “nuovi” media, e quella tensione nel voler usare la letteratura come roccaforte su cui resistere.

A proposito: nel precedente post sulla Leggerezza ho dimenticato un passaggio, un paradigma la cui bellezza e perfezione evidenzia la somigliante sensibilità tra DFW e Calvino (ma Wallace ha mai detto di apprezzare Calvino?). Si tratta di un pensiero che mi piace riportare perché rafforza la “lettura” che ho già dato al significato di Leggerezza. Dice Wallace (non la televisione…) in un’intervista “La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana”. Di abitarlo in maniera viva e umana: mi sembra di essere sempre più vicino al concetto di Leggerezza.

(p.s.: le foto sono tutte di Henri Cartier-Bresson; ho l'impressione che colgano esattamente il concetto di rapidità, perché vedo un'infinità di storie raccontate attraverso un singolo istante).

lunedì 16 luglio 2012

DFW e la "Leggerezza" di Calvino…

Ho terminato di leggere "David Foster Wallace nella Casa Stregata" di Carlotta Susca. Ho assistito a due presentazioni del libro (una per scelta, l'altra perché a due passi da casa). Non ce ne sarà una terza. Voglio dire, di presentazioni sono convinto (e spero per l'autrice) che ce ne siano molte altre, ma per me due possono bastare. E poi, non vorrei passare per un fan di una fan di DFW (e caso mai ci fosse un fan di questo blog, immaginare a un fan di un fan di una fan di DFW ricondurrebbe a una spirale frattalica il cui significato è annidato tra le pagine del saggio (per cui, chi volesse saperne di più…)

Come si dice? "il libro scorre, si fa leggere, lo si legge in un giorno…" Beh, non è quello che direi per il libro di Carlotta Susca. Anzi, non lo direi per nessun libro, perché un "libro che scorre" è un libro che non induce a rileggere alcuni passaggi, a farti riflettere su alcune osservazioni, e queste sono tutte cose che dilatano piacevolmente il tempo della lettura, almeno per l'idea che io ho di lettura. Con questo non voglio dire che sia un libro complesso, la cui cripticità dei contenuti obbliga a ritmi più lenti. Dico solo che le idee espresse, per quanto confinate a un autore specifico, concedono inaspettati spazi al pensiero. Se non avete letto Infinite Jest non è un problema: potrete comunque capire a fondo DFW. E se proprio non vi interessa DFW questo saggio è un utile strumento per esplorare la scrittura… come dire… contemporanea. Altri motivi per leggerlo?
Carlotta Susca e Michele Casella a Polignano

L'interessante analisi della scrittura di DFW alla luce delle "proposte" di Italo Calvino, ad esempio.
L'autrice cerca, e trova, in DFW quelle caratteristica che la letteratura, scriveva Calvino nelle "Lezioni americane", deve portare con sé nel prossimo millennio (il saggio di Calvino fu scritto nel 1985).

La prima caratteristica è la Leggerezza.

È necessaria una premessa: le osservazioni che seguono vanno ovviamente affiancate a quelle dell'autrice e non sovrapposte, in quanto l'analisi che Carlotta Susca fa nel suo saggio parte da un'accezione che lo stesso Calvino dà all'idea di Leggerezza e, pertanto, rimane un'analisi perfettamente condivisibile.

Italo Calvino

Inizio col chiedermi che altra interpretazione dare alla Leggerezza a cui pensa Calvino. Nelle "Lezioni americane" Calvino discorre delle sue proposte senza mai dare per ognuna un'interpretazione univoca. Carica (ma non appesantisce) la lettura del suo saggio di continui e incalzanti riferimenti letterari, di metafore di ogni genere (essenzialmente tratte dai classici), cercando di definire meglio ogni sua "proposta" nel tentativo di ridurne la sfocatura iniziale, lavorando per approssimazioni successive, e avvicinando il lettore a un pensiero che sfugge a qualsiasi rigido schematismo. Prova ne è il fatto che nel saggio ci sono intrecci tra una proposta e l'altra, come se l'argomentazione fosse unica e la suddivisione in capitoli – denominati ognuno con un sostantivo – fosse solo un espediente per "schematizzare" ciò che invece sfugge a ogni schematizzazione.

Comunque sia, parlavamo di Leggerezza.
Calvino vede nella letteratura una "funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere". A parte le tante immagini rievocate per chiarire il concetto di Leggerezza (Perseo e la testa della Medusa, il salto di Cavalcanti, la luna di Leopardi,…), ce n'è una che mi torna alla mente ogni volta che rileggo questa "proposta" di Calvino. Si tratta del fin troppo noto finale del suo libro "Le città invisibili", quando Marco Polo, parlando dell'inferno dei viventi, conclude che, per non soffrirne, bisogna "cercare e saper riconoscere chi o cosa, in mezzo all'inferno, inferno non è, e farlo durare, e dargli spazio". Un peso, l'inferno dei viventi, e una Leggerezza, far vivere e dar spazio a ciò che inferno non è. Quella frase così… perfetta, messa come chiusa del libro, mi sembra che riconduca in maniera quasi didascalica a questo tema.
Shakespeare

Ma c'è un passaggio sulla Leggerezza che fa riflettere. Per Calvino "in Shakespeare si può trovare l'esemplificazione più ricca" del tema. E cita allora la fantasmagoria del Dream: "noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni." Se questa è la più ricca esemplificazione della Leggerezza merita, allora, una certa attenzione.
Se per sogno intendiamo un qualcosa che si desidera ardentemente (sul verbo "desiderare" mi sono soffermato, in maniera frivola, in un altro post), allora ho l'impressione di aver sfiorato, ma solo sfiorato, un significato che sembrava ogni volta sfuggirmi.

C'è un'interessante intervista del 1994, a Remo Bodei. Il filosofo sardo, a proposito di Ernst Bloch e della sua opera "Il principio della speranza" osserva che "A Shakespeare, che si chiedeva di quale materia fossero fatti i sogni, Bloch risponderebbe che la materia di cui sono fatti i sogni è appunto la speranza."

La dea Spes
Sogno / desiderio / speranza mi sembrano, allora, tre settori concentrici di un bersaglio, sempre più prossimi al centro del significato di Leggerezza.
Proviamo, però, per astrazione a porre il concetto di speranza al centro di questo ipotetico bersaglio. Vista così, è come se la letteratura avesse bisogno di speranza/leggerezza per sostenere il peso della vita. Sotto questo aspetto il finale de "Le città invisibili" appare con una luce diversa, non nuova, ma diversa.

Ma dovevo parlare di DFW e non solo di Calvino.
Per la lettura – tutta personale, naturalmente – che ho dato di Leggerezza, la mia impressione è che in David Foster Wallace questa caratteristica risulti traslata in un altro piano, meno visibile di altri, e tutto in una narrazione in cui, tuttavia, la possibilità che lo scrittore offre di capire la nostra società può essere anch'essa  ricondotta, in un certo qual modo, alla speranza/Leggerezza. Ma, a parte questo – che, a ben guardare, non è affatto poco –, lo scrittore Wallace, non concede altro, non offre soluzioni, né scappatoie, né strade. Forse poche speranze.

E poi ci sarebbe la Rapidità. La seconda proposta di Calvino.
In un altro momento, però…

domenica 15 luglio 2012

Arte e parole… Otto Dix

Otto Dix, "I sette peccati capitali", 1933.
Il programma è ArtNews, la voce è di Roberto Pedicini.

lunedì 9 luglio 2012

Esperienza postmoderna…

Se per un problema tecnico di connessione alla rete chiami il tuo gestore di telefonia puoi accorgerti quanto realmente (realmente?) possa esistere un mondo virtuale.
Ho fatto un contratto di telefonia per l'adsl non so con chi (conosco il nome della compagnia ma non ho mai visto né sede né dipendenti), firmandolo soltanto io. Un contratto prevede almeno due parti, e in quello che ho firmato io sono una di queste, ma l'altra parte esiste perché io credo che esista e perché alcune prove materiali, tra cui la pubblicità, solo indirettamente me lo dimostrano.

Comunque sia, si dà corso al contratto e qualcuno, o qualcosa, insomma un'entità non meglio definita mi consente di connettermi alla rete. Poi qualcosa non funziona. Un problema tecnico, mi dice al telefono Valerio che corrisponde solo a una voce e alla chiamata identificata col codice vu73pq9, un problema per il quale mi chiede di pazientare per pochi giorni. Quattro. Sembrano molto esatti, nelle spiegazioni, e questa esattezza mi fa sentire soddisfatto e in buone mani.

Poi i quattro giorni diventano cinque dieci, e io parlo prima con Antonello/uv56ol8 e poi con Sandra/tv29ud6 e tutti mi dicono che solleciteranno l'intervento. Ma quando i giorni diventano quindici venti, dopo aver parlato con Carla/ju43ow8 che mi ripete le stesse cose di… allora perdo proprio la pazienza con Paolo/vl57ks3, al quale chiedo di sapere con maggiore esattezza a chi solleciteranno l'intervento. Ai tecnici, risponde senza esitare, ma se provo a chiedere di parlare io direttamente con i tecnici mi dice che non è possibile, che la procedura non lo prevede, che loro possono solo inoltrare il sollecito e nient'altro. Ma siccome il mio lavoro è bloccato e sono disperato chiedo di parlare con un superiore, con un ufficio, con un responsabile, insomma non solo con un nome e un numero (è possibile, a questo punto, che con la chiamata denominata "Paolo" io stia parlando con l'operatore vl57ks3).
Non c'è verso, però, di arrivare a niente e a nessuno. Faccio presente allora che è una posizione sbilanciata, che voi/loro (non so più quale pronome usare… ma serve davvero un pronome?) conoscono tutto di me, a chi scrivo, cosa scrivo, quali pagine apro, in quali istanti della giornata, le mie abitudini, i miei consumi, le mie letture, le mie idee, e io non so nemmeno se esista un responsabile tecnico. Ma l'avatar mi ripete, con tono distaccato, che non può fare di più. In quello stesso istante capisco realmente cosa c'è di virtuale nella rete. Quando chiudo il telefono mi sembra/credo/ho l'impressione di non aver mai parlato con nessuno. Non mi resta che attendere. Non ho che da arrendermi. A chi o a cosa non ha importanza. Qualcuno prima o poi riparerà il guasto. Qualcuno o qualcosa.
Don DeLillo

Mi sembra una fortuna non avere l'adsl a casa, perché capisco che questa mancanza, almeno lì, non metterà a rischio quella parte di mondo nella quale c'è ancora spazio per qualche residua parvenza di certezza.
Solo che a casa mi accorgo che non funziona il climatizzatore (apparecchio che mi fa credere che la giornata sia fresca quando in realtà fa un caldo insopportabile). Chiamo al telefono il tecnico che lo ha installato, ma parte la segreteria telefonica. Che sia lo stesso dell'adsl? Che ci sia una congiura di tecnici alle mie spalle? La voce cortese al telefono mi comunica che il telefono potrebbe essere… ma io parlo lo stesso, al telefono, pregando il tecnico di rispondere, lo prego come farei con Dio, non di riparare il guasto, a questo punto, ma solo di venire in soccorso della mia salute mentale. Alla fine risponde. Sembra un miracolo.

La sera, a letto, riapro "Rumore Bianco", e passo qualche ora in compagnia di Don DeLillo. Dopo una giornata così, nonostante la lettura (o grazie alla lettura) la serata sembra molto… reale.

(è tutto accaduto, tranne la storia del climatizzatore, inserita giusto per non dare una versione troppo… realistica)

giovedì 21 giugno 2012

Fiammiferi ed esplosioni…

Forse imprudentemente, e con una certa impudenza, l’aver sottolineato, in un post precedente, l'utilizzo della stessa metafora da parte di due scrittori, può essere sembrato un voler tacciare l’uno di un involontario plagio a scapito dell’altro.
Le cose non stanno così.

In letteratura c'è un continuo ritorno di concetti, idee, immagini già espresse, come… (un po’ scontata questa, ma è esattamente ciò che ho in mente) come accade con le onde, nel mare. A dirla tutta, di metafore – se non proprio di storie somiglianti – la letteratura ne è piena: tutto è già stato scritto e lo spazio per vere novità è ridotto al nulla.

Ultimamente sfogliando e rileggendo qualche pagina di Virginia Woolf, mi sono imbattuto in questo passaggio: “La grande rivelazione non era arrivata. La grande rivelazione non sarebbe mai arrivata. Al suo posto c’erano piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi inaspettatamente nel buio…

Virginia Woolf


Questo può essere un concetto sublime, a voler azzardare un significato al senso della vita, e comunque coglie un qualcosa che gli è molto vicino. È naturale, allora, che una tale immagine possa essere stata riproposta con sfumature diverse.

Elizabeth Strout

Penso a un altro libro, “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout. È un libro che in un primo momento avevo abbandonato. Poi ho capito il perché l’avevo fatto. Per apprezzarlo, non puoi leggerlo in qualsiasi momento della vita. Quando il tempo segue regole che ti sfuggono e ciò che ti accade appesantisce le idee, be’… quello non è il momento giusto per leggere “Olive Kitteridge”. Per altri può accadere il contrario, ma per me è stato così.  Comunque, la leggerezza nei tredici capitoli del libro (racconti, più che capitoli, perché se ne potrebbe leggere anche uno a sé) è tale che la quotidianità viene rivestita di piaceri sconosciuti, o solo dimenticati. Non c’è niente nel romanzo che abbia una reale importanza, eppure tutto, anche la situazione o il momento più insignificante, finisce per esserlo. Non volevo parlare del libro, però.
C’era quel pensiero della Wolf, in sospeso…


La Strout scrive “Il parere personale di Olive è che la vita si basi su quelle che lei considera “grosse esplosioni” e “piccole esplosioni”. Le grosse esplosioni sono il matrimonio, i figli, gli amici intimi che ci tengono a galla, ma queste cose nascondono correnti invisibili e pericolose. Ecco perché si ha bisogno anche delle piccole esplosioni: un commesso amichevole da Bradlee’s, per esempio, oppure la cameriera del Dunkin’ Donuts, che sa come vuoi il caffè. Sono faccende complicate, davvero.

I piccoli miracoli quotidiani, i fiammiferi accesi inaspettatamente nel buio della Wolf, con la Strout assumono caratteri più precisi, ben identificati, ma mantengono metaforicamente lo stesso simbolismo: piccole esplosioni/fiammiferi accesi. La “grande rivelazione” per la Wolf è proprio la risposta alla domanda Qual è il significato della vita? (testualmente la riporto da “Gita al faro”). Per lei la risposta non arriverà mai. La Strout, invece, azzarda una risposta, osservando il quotidiano, la realtà, ma soprattutto senza porsi, almeno in apparenza, quella domanda

Sullo stesso pensiero, e con nuuove sfumature, aspetto la prossima onda, ora.

sabato 16 giugno 2012

Una cosa divertente…


PROFILO 1 

Ieri sono stato a un incontro in cui si è parlato di David Foster Wallace. C’erano cinque ragazzi a presentarlo. Anzi, una ragazza e quattro ragazzi, per l'esattezza. Bisogna essere precisi. Il nome del locale in cui si è svolto l'incontro è “Al Visconti”. Non lo conoscevo. Ci sono capitato per caso. Mi sono fermato vicino l'ingresso ad ascoltarli. Mi sono fermato perché non avevo altro da fare, nel senso che non avevo di meglio da fare. I ragazzi hanno parlato di post-moderno e new-realism, e di altro, facendo sfoggio del loro “sapere” con vaghe e inutili speculazioni di ogni genere. Ho capito ben poco di ciò che hanno detto. Mi son chiesto quanto aumentino le vendite di birre e panini, in serate come quelle. Mi sono augurato che tutti quei ragazzi siano già impegnati in un lavoro, un lavoro serio, perché sennò… quanto spreco di energie e di tempo da parte loro… Non si campa con i libri, non si campa con la filosofia, lo dicono le statistiche. E le statistiche non sbagliano mai. Quando sono tornato a casa avevo già dimenticato tutto, per fortuna. Ho fatto il mio solito giro su internet, ciccato su dieci/quindici mi pace, e a letto poi ho visto un po' la tv. Alla fine ho spento la luce e ho dormito.


PROFILO 2

Ieri ho fatto con l'auto 30 chilometri di corsa per arrivare in tempo, a Bari, e poter seguire un incontro su David Foster Wallace. Ero in ritardo, e l’imbarazzo di entrare in un locale già colmo di gente mi stava facendo desistere dall’idea.

Permesso, mi scusi.

Riesco a trovare uno spazio proprio nei pressi dell’ingresso. C’è un tipo accanto a me. Da qui posso vedere meglio chi conduce l'incontro.
Un ragazzo col pizzetto nero sta parlando. Devo entrare nel suo ragionamento. Mi sforzo di farlo. In breve ci riesco. Dopo di lui con la stessa attenzione seguo ciò che dice un ragazzo che mentre parla sorride, e, ancora, una ragazza che tenta di mettere entrambe le gambe sulla sedia – ma di lei mi colpisce la convinzione delle sue parole –, e poi un ragazzo con una maglietta nera – capisco che è uno scrittore da cosa si dice di lui –, e infine un ragazzo che, rimasto fino ad allora in silenzio, in attesa, legge qualche rigo di DFW.

Non ho cercato di capire cosa dicessero. quei tasti non in linea… usciranno mai delle note? Ho cercato solo di ascoltarli. un rumore metallico mi distrae, dei bracciali che urtano, appartengono a una donna, rimane solo il colore di un rossetto E li ho ascoltati così attentamente che anche quando sono andato via, in auto, al ritorno, senza la fretta dell’andata, il tragitto l’ho fatto in loro compagnia.
E non so, ma… ho cercato di vedere la città, la gente, le luci, e l’aria, tutto come se fosse… acqua.
A casa ho rispolverato i libri che ho di DFW. Ho riletto alcuni passaggi, appuntati a bordo pagina. Penso a quei ragazzi, a quello che sorride mentre parla, alla ragazza che tiene le gambe sulla sedia… So che la ragazza (il suo nome è Carlotta Susca) presenterà un suo libro alla Feltrinelli il 19 giugno. Un libro proprio su DFW. Cercherò di esserci. Sceglierò di esserci. Perché "ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l'esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono… (DFW)"
Mi addormento. Con la luce accesa.

mercoledì 13 giugno 2012

Non odio gli indifferenti…

Vuoi perché morto da poco, vuoi perché so che alcuni “amici” sconosciuti (nei tempi della rete questo è un ossimoro ormai da accettare) stanno organizzando un incontro su di lui a Bari, ma in questi giorni la mia attenzione su Ray Bradbury – e su “Fahrenheit 451” – si è rinvigorita.

Ne ho già parlato a proposito delle “verande” (se vi va c’è un post in cui se ne parla). Ma c’è un’altra cosa che ho in mente. Ci vorrei arrivare seguendo una strada un po’… tortuosa, però, ma ci dovrei arrivare (almeno lo spero, per voi, nel senso che spero non perdiate la pazienza…)
Ci provo, allora.

Tempo addietro in più occasioni mi è capitato di ascoltare dei riferimenti a un saggio di Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti”, edito da Chiarelettere. Lo hanno fatto, tra gli altri, anche Nichi Vendola e Gianrico Carofiglio, citando passaggi di questo saggio che, vuoi anche solo per il titolo, garantivano una certa presa sull’ascoltatore e un facile consenso di pubblico. Abile scelta mediatica.
Ma… Non ho intenzione di parlare di Gramsci, né delle sue lettere, ma solo della manipolazione e alterazione del senso delle parole (Carofiglio ha scritto anche un saggio "La manomissione delle parole", edito da Rizzoli; non l'ho letto, spero che il contenuto abbia analizzato a fondo anche il titolo della lettera di Gramsci…).
E vorrei fare anche una precisazione. A difesa degli indifferenti.

Quanta arroganza e intolleranza e violenza vedo in quel titolo…
Mi stupisce l’uso superficiale che, citandola, ne è stato fatto, e se ne continua a fare. In quella lettera, “Odio gli indifferenti”, punto di partenza di Gramsci è la contrapposizione tra indifferenza e partigianeria. Pertanto, l’indifferenza di cui si parla è di natura unicamente politica. Ma chi erano realmente quegli indifferenti? Mi chiedo se, durante il fascismo, l’apatia politica di molti, più che appartenere alla loro natura non fu indotta da altro.

I regimi in Italia e in Germania in quegli anni capirono fin troppo bene l’uso che si poteva fare dell’informazione per dominare le masse. Con l’informazione – una certa informazione – si poteva occultare la realtà, o darne la rappresentazione più utile al regime.
Quanta libertà di pensiero c’è in un mondo così? Quanto viene meno un libero arbitrio?
Dicono che anche nell’ultimo ventennio, in Italia, sia accaduto lo stesso, ma in maniera molto più sottile, evoluta. Dicono. Ma, riprendiamo il filo.

Viene da chiedersi se in quegli anni l’indifferenza, più che la causa, non sia stata la condizione a cui le masse dovevano arrendersi, perdendo ogni strumento che consentisse loro di discernere cosa è male da cosa è bene. Inconsapevoli, inebetiti dall’informazione, si finisce per precipitare nell’indifferenza. Ma hanno davvero “colpa” questi “indifferenti”?

Ecco perché Bradbury. È la stessa atmosfera d’indifferenza che opprime la città di Montag, il vigile del fuoco di “Fahrenheit 451”. Tutti indifferenti a tutto, gente che non deve pensare, non deve ragionare, non deve scegliere, in un progetto di società voluto da un governo che fa dei libri, oggetti colpevoli di indurre al pensiero, dei nemici da bruciare.

(foto di Alessandro Tiberi ©)

Il fatto è che in politica è così maledettamente difficile parlare di indifferenza, perché a guardare la Storia con occhio distante – ma più attento – per taluni personaggi sarebbe stato meglio se fossero rimasti indifferenti invece che essere fautori di qualsiasi totalitarismo.
Io non odio gli indifferenti, perché nel verbo odiare vedo micce che rischiano di far esplodere gesti inauditi di violenza e intolleranza. Io non sopporto l’indifferenza, invece. Non sopporto l’indifferenza verso un barbone che muore per strada, o l’assuefazione alle immagini di fame e di miseria, o l’apatia del vivere, o l’indifferenza per la solitudine. Un indifferente andrebbe scosso dal suo torpore invece che odiato. Un po' come nel libro di Bradbury fa Clarisse con Montag.

Se mai ci fosse un fondo di verità in queste parole e qualora giungessero all’attenzione di un politico o di uno scrittore, vorrei che fossero più cauti nell’uso delle parole. Dovrebbero già saperlo, loro.

martedì 12 giugno 2012

lunedì 11 giugno 2012

Coelho, l'istigatore…

Ci posso scommettere. Ci posso scommettere che le libreria da domani (se non lo hanno già fatto) metteranno in bella vista il libro di Paulo Coelho "Manuale del guerriero della Luce". Funziona così: muore uno scrittore e i suoi libri ricoprono banconi e vetrine: un libro passa alla ribalta per una qualsiasi ragione ed ecco che si fa prepotentemente largo.
Così va la vita, scriverebbe Kurt Vonnegut.

Vi informo subito di due cose. Uno, Coelho non mi piace come scrittore. Due, Coelho non è morto, per fortuna. Ma per via della presenza di quel suo libro sul comodino di Giovanni Vantaggiato, il reo confesso della strage di Brindisi, di lui e di quel libro se ne farà un gran parlare nei prossimi giorni, penso.
Questo fatto di cronaca, sotto questo aspetto, non m'interesa, perché è altro che mi è venuto in mente: se avrete la solita pazienza, spero, vi dirò cos'è. Inizio solo col dirvi che davanti all'avventatezza di alcune considerazioni rimango esterrefatto.

Fabrizio Caccia, in un articolo sul "Corriere della Sera" di sabato scorso, tra i vari passaggi, riporta così il rinvenimento del libro da parte degli investigatori: "… sembra (Vantaggiato) come aver preso l'ispirazione dalle pagine dello scrittore brasiliano: «Il guerriero della luce si serve della rabbia per mostrare l'infinito valore della pace… si serve del fuoco per impartire una lezione sull'acqua… si serve della morte per mostrare l'importanza della vita…». Se ad armare il suo delirio è stato questo, oltre alla crisi economica… lo si saprà forse oggi stesso…"


Un libro, parole che armano la mano di uno squilibrato. Che responsabilità scrivere certe cose… Ha senso scrivere una frase del genere? O non è forse solo lo squilibrio mentale a distorcere l'interpretazione delle parole, ad alterarne significati per giustificare azioni che altrimenti suonerebbero come pura follia e che richiederebbero una semplice condanna, senza il bisogno di trovare vortici ambigui nella letteratura? Chi ha realmente impugnato la pistola che uccise John Lennon: Mark David Chapman o Salinger?
Se Coelho non fosse mai esistito sarebbe ancora in vita la ragazza di Brindisi? Se Salinger non fosse mai nato staremmo qui a parlare della morte di John Lennon?

Il fatto è che credo che faccia un grande effetto sulla gente pensare che un libro possa alterare una mente umana. A dire il vero io sono convinto che possa accadere. Ecco, era quello che volevo dirvi. Ma non in così poche parole.

Sono convinto che un libro sia in grado di suscitare un tale silenzioso processo dentro di noi da condizionare i nostri comportamenti, le nostre scelte. Solo che noi siamo inclini ad accorgerci che questo accade solo quando ci troviamo di fronte a cose grandi, molto grandi, e spaventose, e tremende. Vogliamo rimanere stupiti, inorriditi, sì, ma stupiti.


Mi chiedo, però, di tutti quelle banali cose quotidiane – sorrisi, parole d'affetto, aiuti, conforto, abbracci, sguardi, confidenze, amori, baci, sogni, speranze… – a cui le emozioni provate leggendo un racconto possono averci indotto, di tutte queste cose chi mai ne parlerà? Quando e quanto spazio mai occuperanno sulle pagine di un giornale? Sono cose silenziose, non fanno notizia, ma sono le cose a cui possono indurre i libri, una delle ragioni per cui vale la pena leggerli, se mai qualcuno me ne chiedesse una, di ragione.

L'inopportuno signor Ramsey, in "Gita al Faro" di Virginia Woolf, si chiede "Se Shakespeare non fosse mai esistito il mondo sarebbe stato molto diverso da quello che è oggi?"
Estrapolo questa frase come raccoglierei una goccia da un lago. Ma la riporto così com'è e la pongo a me stesso: se Shakespeare non fosse mai esistito il mondo sarebbe stato molto diverso da quello che è oggi?
È possibile che… la letteratura, credo, o più in generale, le arti, nonostante lotte, guerre, battaglie, abbiano evitato che ci distruggessimo l'uno con l'altro.
E se così fosse, se realmente sono state capaci di tanto, lo hanno fatto molto, molto silenziosamente.

sabato 9 giugno 2012

Bradbury, Baricco e le verande…

E poi c'era quella storia delle verande. Non è che mi assillasse, ma era lì, che si affacciava alla mente di tanto in tanto.

Quando ho saputo che Ray Bradbury era morto, qualche giorno fa, si è riaffacciata. Allora ho preso un suo libro, quello a cui tengo di più. L'ho sfogliato: un tributo silenzioso a chi so avermi lasciato parole che avrei rimpianto, se conosciute troppo tardi o se non le avessi conosciute affatto.

Ho sfogliato il libro e ho riletto alcuni passaggi che avevo evidenziato a bordo pagina. Uno lo riporto qui (non è il migliore, ma… abbiate pazienza, capirete perché proprio questo).
"Alle volte, se ne stavano seduti sulla veranda, tutta la famiglia, a pensare a tante cose, a sviscerare le cose. Lo zio dice che gli architetti si sono liberati delle verande, perché le verande non erano estetiche. Ma lo zio dice che questo era un voler razionalizzare il fatto; la vera ragione, nascosta sotto, mascherata, era forse che non si voleva la gente seduta sotto le sue verande, così in pace, senza far niente, a dondolarsi, a chiacchierare: perché questo era il genere di vita collettiva non desiderata. In quelle condizioni, la gente parlava troppo; aveva il tempo di pensare; e così s'è fatta la festa alle verande. E anche ai giardinetti davanti ad ogni casa. Non ci sono più panchine, non ci sono più giardini, dove sedere a perdere il tempo. E poi, avete osservato i mobili? Non ci sono più poltrone a dondolo. Sono troppo comode. La gente deve stare in piedi, deve correre tutto il santo giorno. "Lo zio dice... e... sapete che cosa ha detto lo zio?... del resto lo zio..." La voce di Clarisse si affievoliva sempre più."


Dopo aver chiuso il libro, però… quella storia delle verande continuava a ronzarmi intorno. Mi son chiesto dove altro diavolo l'avevo letta.
Ho provato ad aprire qualche libro, a caso. Tra i tanti, e senza alcun criterio, la mia sembrava una lotteria. Per la ricerca ho perso qualche minuto. A dire il vero ne ho persi parecchi di minuti. E a dire il vero non penso proprio di averli persi, perché ho riaperto libri rimasti da tempo in attesa di quel mio gesto, umili e silenziosi elargitori di cose andate nel tempo, momenti lontani, ricordi. Se avessi fatto una ricerca della parola "veranda" in un qualsiasi lettore di ebook sicuramente non avrei "perso" tutto quel tempo, ma altrettanto sicuramente non avrei rivissuto quei momenti.

Ma questo a voi non interessa. Forse vi interesserà sapere che il libro poi l'ho trovato, per fortuna. Sennò, per uno testardo come me, al diavolo la libreria e tutto quanto: li avrei incendiati, i libri, sennò…
Era di Alessandro Baricco. "City". Anche lui parla di verande. Non solo di verande, ovviamente.
Se un qualsiasi scrittore inviasse un proprio manoscritto a un editor, in cui come metafore usasse, chessò… una balena bianca, o un topo che rosicchia dei libri in biblioteca, o un uomo che si ritrova ad essere un insetto, be'… non so quali risposte riceverebbe. O quali imprecazioni.

Ma Baricco non è uno scrittore qualsiasi.
Chiariamoci subito: penso che le letture che ognuno fa lascino tracce (per fortuna) che talvolta, e inconsapevolmente, col tempo possono tornare a galla. Può essere ciò che è accaduto a Baricco. O almeno è quello che voglio sperare.

In "City" Baricco, riepilogando una lunga dissertazione fatta dal prof. Baldini, un personaggio del romanzo, scrive: "Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l’unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dall’ondata dell’Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente sì affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là dove solo le è dato di arrestare l’invasione del mondo, salvando quanto meno l’idea di una propria casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava." (a proposito, Baldini/Baricco sulla veranda immaginava un uomo proprio su una sedia a dondolo.)


Penso che se un giorno mi trovassi a osservare una bella veranda e avessi accanto una persona che non conoscesse i due libri, probabilmente gli parlerei di quello di Bradbury. La scrittura di Baricco è impeccabile, inarrivabile, e lo è in tutto il libro, "City", e lo è in tutti i suoi libri. Ma io per la veranda… al malcapitato al mio fianco, gli parlerei di Bradbury e di "Fahrenheit 451". Ah, già, non avevo ancora scritto il titolo del suo libro: è quello in cui li si bruciano, i libri. Ma se qualcuno pensasse che la sola morale (?) del libro fosse quella che i libri non si bruciano lo inviterei a leggere Cenerentola o altre fiabe del genere.

Se non lo hai già fatto ti invito a leggerlo, allora, "Fahrenheit 451, anche se non in veranda su una comoda sedia a dondolo: leggilo, non ti offre zattere su cui sopravvivere, scaccia via da te la paura del mare.