giovedì 31 maggio 2012

Arte e parole… De Chirico

Giorgio De Chirico, "Il ritorno di Ulisse".
Il programma è Artnews, la voce è di Roberto Pedicini.

mercoledì 30 maggio 2012

pensando al terremoto…

"Nella mia vita è crollato tutto…"
"È stato come un terremoto…"
Quante volte abbiamo usato la metafora del terremoto per descrivere ciò che stava accadendo alla nostra vita? Magari dentro di noi era proprio così. Quando perdi un lavoro, quando svanisce un'amicizia in cui credevi, quando finisce un amore…


E poi accade.
Accade che un giorno, dalle immagini di un giornale o da quelle di un video, quella metafora assuma una forma precisa nei tuoi occhi.


E in quel momento capisci cosa vuol dire realmente quando crolla qualcosa, come nel caso dei patrimoni artistici custoditi nei secoli e rovinati al suolo in un istante. Capisci cosa può voler dire (perché puoi solo immaginarlo) ritrovarti per strada all'improvviso e tutto quello che ti è rimasto della vita è solo una coperta sulle spalle. Capisci cosa può provare un vecchio, costretto in una tenda a vivere i pochi anni che gli rimangono senza più nulla su cui contare, tranne i ricordi. E gli affetti.


Se nella casualità della vita – che non è brutalità della natura o ferocia del destino, come leggo e ascolto in questi giorni, ma solo casualità – se nella casualità della vita, dicevo, può arrivare il giorno in cui nelle mani ti rimangono solo affetti e ricordi, allora vuol dire che, fin da ora, dovresti salvaguardarli riponendo in loro una smisurata fede. Fede negli affetti e nei ricordi.

Di fronte a un terremoto, evento estremo per la sua forza devastante, mi viene da pensare che quanto più siamo vicini al crollo di tutto, alla fine, alla morte, tanto più capiamo il senso della vita.
Questo vale forse per chi davvero si è trovato a due passi dalla morte. Vale per chi ha vissuto le grandi guerre, dove accanto agli istinti più brutali si risvegliano valori come fratellanza, patria, soccorso, sacrificio…


Ma torniamo al terremoto e a noi. Della distruzione e della morte che guardiamo in uno schermo o sulle pagine di un giornale, cosa capiamo? Si risvegliano anche per noi quegli ideali, ecc.…

Le cose del mondo, le cose degli umani non vanno così. Fosse così facile capire il senso della vita…
Bastassero semplici immagini a correggere le aberrazioni che ci spingono all'odio, alla violenza, all'invidia, al potere…
Non sono bastate. Terremoti, alluvioni, frane, inondazioni… Non sono bastate. A guardare cosa siamo oggi, a giudicare dalla nostra indifferenza, non sono bastate. Dagli occhi, le immagini che guardiamo difficilmente sedimentano nella nostra coscienza.
Dovrebbero farlo, invece.
Allora, solo allora, basterebbero.

sabato 26 maggio 2012

Desiderare un cornetto…

Sono affascinato dalla lingua inglese. Mi piace sentirla parlare. Non l'americano, l'inglese (è diverso).
Mi piacciono le parole senza vocali finali, il suono delle espressioni verbali. Non che l'italiano non abbia una sua bellezza e musicalità, ma l'inglese…

Sarà per quel fascino delle cose che vorresti raggiungere, e senti che il tempo che hai non è abbastanza.

Ma non era di questo che volevo parlare. L'inglese lo conosco, poco. Altri amici (li invidio) mi dicono che alcuni libri li hanno letti in inglese. Ecco, mi sto avvicinando a ciò che volevo dire (spesso la prendo alla larga: abituatevi, se vi va…).
Conoscere una lingua a fondo credo sia un'impresa molto impegnativa. Figuriamoci due (a parte il lavoro dei traduttori che necessita di queste conoscenze). E allora mi concentro sull'italiano.
Mi sforzo (quanto ci riesca non saprei) di trovare la parola giusta per ogni costruzione verbale, l'aggettivo più adatto, il verbo più appropriato. Non è facile, perché le sfumature sono così sottili a volte, e ognuna distingue anche di poco una parola dall'altra. Roba da stare sempre attaccati al vocabolario… Oppure al dizionario etimologico. Affascinante l'etimologia delle parole, ti aiuta ad imparare come usarle. 

Desiderare. Mi ha fatto riflettere un'osservazione di Luisa Carrada nel suo blog (http://blog.mestierediscrivere.com/: ve lo consiglio, ma non perdete di vista il mio…)




Desiderare, allora.
Su http://etimo.it/ consulto rapidamente l'etimologia delle parole.
"De sideràre", volgersi, fissare attentamente le stelle, indica il vocabolario. Oppure, se il prefisso "de" lo si intende come allontanamento, allora suona come mancare di cosa o persona bramata, come si possono bramare le stelle.



Sentire la mancanza di qualcuno, come sento la mancanza di una stella che non riesco a raggiungere.
Provate a rileggere questa frase.
Quanta attenzione in più farete da domani nell'usare questo verbo? Con quanta passione in più lo pronuncerete quando e solo se le circostanze lo richiederanno? 
Desidero vedere il sorriso sulle tue labbra, perché quando non c'è è come se mancassero le stelle.
Desidero incontrare te, perché la tua assenza cancella dal cielo ogni luce.

No, sono solo esempi, non poesie! Poesia è ben altro!
Quella non è poesia come questa non è una lezione di… italiano. Figuriamoci.
L'importante… l'importante è che voi domani non entriate in un bar chiedendo "Desidero un cornetto…" (anche se a volte, quel profumo, quel sapore… come scintille di gusto sul palato, piaceri siderali…)

giovedì 24 maggio 2012

"Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo…"

Fermiamoci al titolo del romanzo, Cecità. La metafora narrata da José Saramago è di un’evidenza disarmante. Ma qui parliamo di Saramago e sarebbe riduttivo limitarsi a una metafora per “spiegare” il libro (qualunque cosa significhi questo verbo).

E poi c’è quell’impaginazione così compatta, a corpo unico, quasi ostica alla vista, roba da scoraggiare anche i più incalliti alla lettura (i dialoghi, comunque, ci sono, vi assicuro, quasi in ogni pagina.)

La trama, per quanto di fantasia, segue una logica che afferra il lettore in un crescendo di tensione e piacevolezza (sempre che per una storia così tremenda e dura “piacevolezza” sia il termine più adatto).

Nel romanzo la cecità è una malattia contagiosa che affligge un’intera comunità. Viene meno tutto, dignità, rispetto, regole, facendo diventare l’anarchia l’unica forma possibile di “convivenza”. Per timore di un contagio, i primi colpiti dalla cecità vengono rinchiusi in un ex manicomio.

La loro malattia li porterà a vivere come bestie, in un mondo confinato a se stesso, in cui crudeltà, brutalità e ferocia sembrano essere tutto ciò che è rimasto dell’uomo. Tra lotte con bande di ciechi malvagi, anche loro internati, si risveglieranno, però, sentimenti veri e piccoli gesti di umanità.




Nulla viene nominato. Non vengono nominati luoghi, né persone (i protagonisti sono il medico, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera, ecc.). Che lingua parlino, e in quale luogo si trovino i personaggi non è dato a sapersi. Dove siamo, allora?

L’assenza di nomi potrebbe far pensare sì a un territorio immaginario, ma, in fondo, a un “non luogo”, un territorio della coscienza, se non proprio dell’anima.


Difficile, però, parlare di anima per Saramago, lontano com’è stato per tutta la vita dalla Chiesa e da ogni fede (per le parole usate “contro” Saramago in un articolo pubblicato il giorno dopo la sua morte, l’Osservatore Romano sembrò tirare un sospiro di sollievo per la sua dipartita: che incredibile cecità!)

Ma la cecità dei personaggi non è quella che si può pensare – buia, nera. È una cecità bianca. Quest'assenza di colore è un'assenza di fede, non di natura religiosa, ovviamente (parliamo di Saramago, no?), ma di fede nell'uomo, e senza questa fede indifferenza e malvagità prendono il sopravvento sulla solidarietà.


Durante la lettura viene naturale interrogarsi verso cosa siamo ciechi o a causa di cosa ci ammaliamo di cecità. Il romanzo, a riguardo, non dà risposte, non offre indicazioni esplicite (contrariamente a come è esplicita la metafora). Tratteggia, però, un’infinità di gesti e sottolinea con cruda delicatezza così tante riflessioni che il lettore è portato a rallentare la lettura fino a fermarsi, per un attimo, e interrogarsi se egli stesso è parte di quella cecità.


Quale speranza ha questa umanità non più capace di vedere? Cosa o chi può salvarla?
La speranza, per Saramago, è affidata alle donne. Sarà una donna, l’unica finta cieca, ad aiutare ognuno, come infermiera in un inferno. Guiderà e accompagnerà i sopravvissuti verso la salvezza, mentre un’altra donna, una ragazza “facile”, farà da mamma a un ragazzo e, nello stesso tempo, concederà minuti di piacere a chi è sul baratro della solitudine. Saranno queste donne – prima col loro sesso, poi con la loro astuzia – a salvare gli uomini da una banda di malvagi.

Amore, maternità, aiuto, sesso, astuzia, sono allora gli unici aspetti rilevanti della vita, che Saramago riserva unicamente alla donna, da reggere come fardelli, da assolvere come compiti, ma soprattutto da custodire come doni per una possibile redenzione dell’umanità. Redenzione senz’altro non divina. Parliamo di Saramago, no?

mercoledì 23 maggio 2012

Serate di parole

Come tanti ho seguito “Quello che (non) ho”, le serate su La7 di Fabio Fazio e Roberto Saviano.

Ho letto qualche commento sulla trasmissione. In gran parte erano positivi, altri più critici. Ad esempio, c’è chi si è scagliato contro il “potere” editoriale di Fabio Fazio, chi ha ritenuto che la lunga durata della trasmissione fosse stata necessaria solo a contenere le pubblicità, chi ha esaminato i compensi stellari dei conduttori (cinquecentomila euro), chi, invece, era animato solo dall’antipatia per Fazio o Saviano.

Dimenticando tutto questo (ché in questo post vorrei parlare di altro), a me piace che il pubblico sia stato intrattenuto grazie a “semplici” parole.
Come “libertà”, “ponte”, “convivenza”, “poesia”, “futuro”,…
Era tanto che non accadeva.
A dire il vero, in alcuni momenti mi è sembrato un Sanremo della parola, con alla fine commenti del tipo “mi è piaciuto più quello…”, “è stato più bravo quell’altro quando…”, ecc. Certo che se penso, oggi, a ciò che si è detto durante quelle serate, in tutta sincerità devo dire che mi è rimasto ben poco. Come se si fosse parlato di “troppo”, e nessuna parola avesse avuto tempo, da sola, di essere metabolizzata: accade proprio così, invece.

Ma in fin dei conti mi va bene lo stesso, perché se da tutte quelle ore di trasmissione è scaturita anche una sola riflessione, di un solo istante, allora ne è valsa la pena.
Penso solo che, con tutte quelle parole profonde, con tutte quelle analisi del pensiero, e, principalmente, con tutti quei milioni di telespettatori, allora, da domani (che è già oggi) l’Italia dovrebbe essere un paese migliore.
Devo credere di sì.
Nonostante questo, però, in quelle stesse ore altre persone pensavano a fare di semplici bombole di gas ordigni di morte.
Mi rimane la speranza, allora, che la detonazione delle parole, come quelle ascoltate l’altra sera, distrugga l’indifferenza che alligna nelle nostre menti.

Che frase d’effetto come chiusura: siamo in tema di parole, no? Ma vorrei cancellarla, quella frase. Ché temo che l’apprezzamento della metafora, o dell’enfasi stilistica (qualora ci sia e qualcuno la riscontri) abbia la meglio sul contenuto.
E non vorrei.
Perché stiamo parlando dell’importanza delle parole.

martedì 22 maggio 2012

la venticinquesima ora

Meglio il romanzo o il film? Sono espressioni artistiche non paragonabili. Mi sottraggo alla risposta, allora.
Qui vorrei parlare del libro. E allora provo a dimenticare il film, poiché la forza delle immagini cinematografiche impone personaggi e luoghi in maniera fin troppo definita.
 
Il romanzo, allora. Di David Benioff.
 
Monty è un uomo alquanto giovane, pusher, spavaldo, frequentatore di locali alla moda come di bande criminali. È ricco, ma la sua ricchezza ha un’origine sporca, dalla quale lui, pur cosciente e godendone, pensa di affrancarsi. Quando decide di farlo, però, è troppo tardi. Nel corso di un’irruzione della polizia in casa sua, dovuta a una soffiata, lo scoprono in possesso di un quantitativo tale di droga da decretarne l’arresto e la condanna ad almeno sette anni di carcere. Monty dovrà scontare questa pena, ma sa che non ne uscirà bene, forse non ne uscirà affatto. Sarà così alto il prezzo che dovrà pagare in carcere, tra umiliazioni e soprusi di ogni genere, da convincersi che ne uscirà diverso. Una persona con ferita difficilmente rimarginabili.
 
La messa a fuoco del libro è sulle 24 ore che precedono il suo ingresso in carcere, le ore in cui maggiore è la consapevolezza di ciò che lo attende.
Queste ore le passerà in compagnia di due amici, Slattery, un agente di borsa senza scrupoli, il cui unico dio è il denaro, e Jakob Elinsky, un professore di letteratura insoddisfatto del suo lavoro ma ancor più della sua stessa vita. Ma soprattutto in compagnia di Naturelle, la sua incantevole donna portoricana, per la quale nutre l’unico amore che abbia mai provato.
 
Ambientata in una New York – città emblema dell’America – dove le luci sono ingannevoli, spesso artificiali, ma dove ciò che fa ancora più paura sono le ombre delle cose non fatte, degli occhi chiusi, di ciò che poteva essere ma non è stato. È una chiave di lettura, personale, ovviamente, che offre al romanzo di Benioff sfaccettature che vanno ben al di là della semplice storia di Monty.
Il profilo tracciato  dell’America è crudo, spietato, avido (“il potere ti aiuta a far soldi e i soldi danno potere…”), ma allo stesso tempo carico di amori spezzati e di sogni infranti. O che rischiano di infrangersi. Monty diventa l’America stessa, con le sue paure per il futuro, con la sua rabbia per ciò che aveva e non avrà più, con il suo rimorso per non essersi accorta prima “dove” era diretta. Un baratro, probabilmente.
 
Il libro è stato scritto prima dell’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre, prima della paurosa crisi che ha fatto e sta facendo precipitare gli Stati Uniti nell’incubo della disoccupazione e dei fallimenti. Ma l’aspetto tristemente premonitore del libro è che denuncia proprio la sordità della nazione a tutto questo. Monty è così indignato per questa sordità che arriva persino a vedere tutte le colpe del mondo nella sua città e a desiderarne anche il peggio, per lei, pur di risvegliarla dal suo torpore (passaggio inquietante: “che venga un terremoto e butti giù i grattacieli: che il fuoco divampi incontrastato; che bruci, bruci, bruci…”: i grattacieli, poi, sono venuti giù realmente…).
Ma dov’è l’anima dell’America? Non saprei. A me piace vederla nelle prime pagine, nella figura di un cane che, ferito e quasi moribondo dopo essere stato torturato, viene soccorso da Monty e tenuto con sé. Di questo cane si parlerà ancora, nel libro, in passaggi molto intensi. Il cane dovrà rimanere in vita, a tutti i costi. E Monty lo affiderà a uno dei suoi amici, a Jakob, l’insegnante di letteratura.
Bello, il cane.
Da affidare. Vivo a tutti i costi.

Uno sguardo

"Ma com'era Melissa?"
Immancabile, come lo sdegno che segue un'atrocità come quella accaduta alla scuola "Morvillo Falcone" di Brindisi, immancabile la domanda della giornalista: "ma com'era Melissa?"
Era una domanda della quale la giornalista conosceva già la risposta, una risposta fatta di parole spezzate per l'emozione, di occhi lucidi, di pensieri interrotti dal dolore.
Alla giornalista non interessava la risposta, ma l'effetto che quella risposta avrebbe avuto su di noi, la risonanza che avrebbe avuto il suo servizio grazie a quelle lacrime.
Ho inserito una foto della ragazza, di Melissa, in questo post.
Devo essere sincero, mi è sembrato di violare una certa intimità, di riportare qualcosa che non era mio, che non mi riguardava.
Ma quello sguardo che non richiede commenti, con la mano che copre il volto dimostrando di quanto gli occhi, da soli, possano 'parlare', beh, credo che uno sguardo così non richieda alcuna domanda.
Solo uno sguardo.

marilyn

Sfogliando l'allegato di un quotidiano ho visto un servizio su Marilyn Monroe.
Nei tempi della scuola in camera avevo suoi poster attaccati al muro. La guardavo. Il suo sorriso, le luci sul suo corpo…
Lo so, è una bellezza scontata, ma sono cresciuto con quel volto, con quel sorriso.
Poi l'articolo dell'altro giorno.
Si parlava di voler fare luce sulla sua morte. Il fatto è che ne hanno fatta troppa di luce, pubblicando una foto che la ritrae stesa sul lettino dell'obitorio, pronta per l'autopsia. In primissimo piano il suo volto, disfatto, l'espressione atroce di un cadavere prossimo alla decomposizione, la pelle aggredita da rughe che, senza alcuna decenza, hanno sottratto ogni fascino, i capelli che mantengono il loro chiarore, ma, come se fossero sporchi e unti, tirati all'indietro per far vedere meglio la peggiore bruttezza della morte.
Mi chiedo che senso ha avuto pubblicare quella foto.
Cerco di rimuoverla.

Mantenendo in mente quella bellezza che ha accompagnato la mia giovinezza.
Hanno tentato di soffiare sulla candela, per spegnerla.
Forse la bellezza è più forte della miseria umana.

libri e letteratura

Cosa vuol dire saper scrivere bene?
Non credo di far parte della categoria di chi possiede questo dono. Credo, invece, che sia interessante porsi questa domanda: cosa vuol dire scrivere bene?
Non fare errori di grammatica? è una condizione necessaria ma non sufficiente.
Farsi capire? è importante, ma non determinante.
Elaborare periodi articolati con virtuosismi linguistici e stilistici? piacerebbe.
Far sentire la "voce" dello scrittore qualunque essa sia e qualsiasi cosa ci sia dietro quella voce? sì, ma…
Percorrere sentieri mai battuti dalla scrittura, sperimentare? sarebbe interessante. 
Sorprendere? è quello che molti cercano di fare.
Saper scrivere bene magari vuol dire tutto questo, certo, ma io ho mantenuto un'idea… romantica dello scrivere. Lo so, sono cose lontane, della cui mancanza bisogna farsi una ragione. Ed è un aspetto sul quale nessun critico letterario mai si soffermerà, su quanta onestà o autenticità cioè ci sia negli scrittori.
Cosa altro ci può essere, allora, dietro le loro pagine? Desiderio di celebrità? di soldi? appagamento di vanità?
Oggi lo scrivere è un semplice mestiere, nulla di più.
Esigenze editoriali e di mercato ce n'erano anche in passato, ma la qualità letteraria rimaneva al primo posto, nelle scelte.
È diventato un azzardo accostare i libri alla letteratura, due concetti che abitano territori che poco hanno in comune. Come accostare un centro commerciale a una radura. A me piace vivere all'aria aperta.