martedì 22 maggio 2012

la venticinquesima ora

Meglio il romanzo o il film? Sono espressioni artistiche non paragonabili. Mi sottraggo alla risposta, allora.
Qui vorrei parlare del libro. E allora provo a dimenticare il film, poiché la forza delle immagini cinematografiche impone personaggi e luoghi in maniera fin troppo definita.
 
Il romanzo, allora. Di David Benioff.
 
Monty è un uomo alquanto giovane, pusher, spavaldo, frequentatore di locali alla moda come di bande criminali. È ricco, ma la sua ricchezza ha un’origine sporca, dalla quale lui, pur cosciente e godendone, pensa di affrancarsi. Quando decide di farlo, però, è troppo tardi. Nel corso di un’irruzione della polizia in casa sua, dovuta a una soffiata, lo scoprono in possesso di un quantitativo tale di droga da decretarne l’arresto e la condanna ad almeno sette anni di carcere. Monty dovrà scontare questa pena, ma sa che non ne uscirà bene, forse non ne uscirà affatto. Sarà così alto il prezzo che dovrà pagare in carcere, tra umiliazioni e soprusi di ogni genere, da convincersi che ne uscirà diverso. Una persona con ferita difficilmente rimarginabili.
 
La messa a fuoco del libro è sulle 24 ore che precedono il suo ingresso in carcere, le ore in cui maggiore è la consapevolezza di ciò che lo attende.
Queste ore le passerà in compagnia di due amici, Slattery, un agente di borsa senza scrupoli, il cui unico dio è il denaro, e Jakob Elinsky, un professore di letteratura insoddisfatto del suo lavoro ma ancor più della sua stessa vita. Ma soprattutto in compagnia di Naturelle, la sua incantevole donna portoricana, per la quale nutre l’unico amore che abbia mai provato.
 
Ambientata in una New York – città emblema dell’America – dove le luci sono ingannevoli, spesso artificiali, ma dove ciò che fa ancora più paura sono le ombre delle cose non fatte, degli occhi chiusi, di ciò che poteva essere ma non è stato. È una chiave di lettura, personale, ovviamente, che offre al romanzo di Benioff sfaccettature che vanno ben al di là della semplice storia di Monty.
Il profilo tracciato  dell’America è crudo, spietato, avido (“il potere ti aiuta a far soldi e i soldi danno potere…”), ma allo stesso tempo carico di amori spezzati e di sogni infranti. O che rischiano di infrangersi. Monty diventa l’America stessa, con le sue paure per il futuro, con la sua rabbia per ciò che aveva e non avrà più, con il suo rimorso per non essersi accorta prima “dove” era diretta. Un baratro, probabilmente.
 
Il libro è stato scritto prima dell’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre, prima della paurosa crisi che ha fatto e sta facendo precipitare gli Stati Uniti nell’incubo della disoccupazione e dei fallimenti. Ma l’aspetto tristemente premonitore del libro è che denuncia proprio la sordità della nazione a tutto questo. Monty è così indignato per questa sordità che arriva persino a vedere tutte le colpe del mondo nella sua città e a desiderarne anche il peggio, per lei, pur di risvegliarla dal suo torpore (passaggio inquietante: “che venga un terremoto e butti giù i grattacieli: che il fuoco divampi incontrastato; che bruci, bruci, bruci…”: i grattacieli, poi, sono venuti giù realmente…).
Ma dov’è l’anima dell’America? Non saprei. A me piace vederla nelle prime pagine, nella figura di un cane che, ferito e quasi moribondo dopo essere stato torturato, viene soccorso da Monty e tenuto con sé. Di questo cane si parlerà ancora, nel libro, in passaggi molto intensi. Il cane dovrà rimanere in vita, a tutti i costi. E Monty lo affiderà a uno dei suoi amici, a Jakob, l’insegnante di letteratura.
Bello, il cane.
Da affidare. Vivo a tutti i costi.

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